WORK SWEET WORK
Testo e foto: © Antonella Di Girolamo
WORK SWEET WORK
Rottamazione di routine nella rottura di rotula rutilante nel rovente ultimo round.
Nelle mattine d’inverno, la cosa più faticosa da fare è tirare fuori i piedi dal tepore del letto.
Calzettoni di lana suppliscono alla primavera. Fuori albeggia, ma la nebbia non si è ancora alzata.
Quando Tilia apre la finestra non è più l’alba. Si affaccia, respira e guarda e così attraversa la prima apertura di incontro.
Gli occhi inquadrano sempre la stessa porzione di città, la stessa successione di piani, lo stesso punto di vista. La stessa scena ma con diverso scenario.
Palazzo Cerere, l’edificio che incontra al primo affaccio, ogni giorno da oltre 14.000 giorni, è cambiato.
Ridipinto di giallo, come Cerere, la dea delle messi, è un ex pastificio, attivo dal 1905 poi la guerra, il bombardamento e la ripresa. Ha prodotto pasta fino al 1960.
Tilia immagina il rumore delle macchine industriali in quel inizio secolo. Il lavoro ambito e il caldo e il sudore. Poco è mutato della struttura esterna, gli enormi finestroni, divisi in venti sezioni rettangolari, potrebbero ricordare la geometria delle finestre all’inglese dei cottages di caccia, nelle campagne inglesi.
In questa caccia, in questa lotta, la volpe era predestinata.
Adesso è una fondazione che accoglie artisti.
Il cibo per il corpo ha lasciato il posto al nutrimento per la mente.
Tilia prosegue e, solo dopo pochi passi, ecco la seconda apertura di incontro.
La finestra sulla piazza è il loggione di quel palcoscenico di incontri stradali e scontri amorosi, dove gli occhi di Tilia vi si appoggiano da oltre 14.000 giorni.
Una piazza che non è una piazza ma è un luogo che lascia andare il respiro. Tilia ricorda ancora il primo incontro e l’innamoramento, che non è mai scemato, con lo sguardo verso il palazzo di fronte, dalla facciata parlante per voce dei putti a lato delle finestre, “Domi salus recta aedes aeterna manet in urbe maxima”.
Una piazza che non è una piazza ma un è un incrocio di due strade perpendicolari con gli angoli dei palazzi tagliati a 45°e i quattro lati dedicati ai parcheggi.
Non ci sono panchine per le pause, né alberi per accogliere il garrito dei pappagalli, né rotatorie per rallentare ma, nelle quiete serate, i venti dell’est portano il profumo delle montagne.
Il lavoro di Tilia è cambiato e anche la strada per arrivare a destinazione non è più la stessa.
Il percorso non è lungo ma il lavoro è distante. Tutto evolve e tutto muta, laddove le finestre restano. Gli occhi restano e, come mirini fotografici, osservano e vedono le altrui finestre chiuse.
Caffè prima di iniziare il lavoro.
Amaro e nero. Solitamente al primo ne segue subito un secondo e il gorgoglio della caffettiera è inascoltato nella sua abitudine.
Tilia arriva alla scrivania.
Accende il computer. Sistema i fogli e le penne. Prepara il giornaliero litro di acqua. Verifica la lista del “da fare”. Controlla la batteria del cordless. Si siede alla scrivania. Si può cominciare.
L’aria è cambiata.
Il sole tramonta ancora a ovest e questo rassicura.
Tilia chiude le finestre.
Al portone sono ancora inserite le mandate.
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Liberamente ispirato al progetto fotografico: WindowOver
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